Lo ritrovavo tutti gli anni in estate quando venivo a Voltago a trascorrere le vacanze scolastiche nella casa dei nonni, ai Struz, dove ancora abitava la famiglia di mia zia. Mi riferisco agli anni ’50.
Lui era rientrato al paese a primavera inoltrata, come tanti, dopo aver trascorso parte dell’autunno e l’inverno in giro per l’Italia a fare il contha e, negli anni più recenti, in Svizzera per svolgere qualsiasi lavoro disponibile. Il periodo del rientro al paese doveva essere impiegato per lo svolgimento dei lavori agricoli, il più importante dei quali era lo sfalcio dei prati per assicurare l’alimentazione del bestiame nei mesi freddi. Un “rito” comune a tutte le valli alpine (allora!).
Da studente delle medie e abitante in città ero abbastanza affascinato dai lavori in campagna e mi offrivo sempre come aiuto per le varie attività. Naturalmente mi venivano assegnati i compiti più semplici, ma a me andava bene, sentivo di partecipare.
Tra le altre cose, mia zia possedeva un bel prato a Grel, esposto a sud, quindi molto solatìo, che cominciava sotto la strada che porta da Calincros a Cerve, dove era piuttosto ripido, e terminava in basso quasi pianeggiante, proprio sopra Miana (superfluo dire che quel prato è diventato col tempo una boscaglia inestricabile…). Siegà quel prato era bello impegnativo, ma anche il fieno che se ne otteneva era abbondante e di buona qualità. Ogni anno anch’io ero coinvolto nell’impresa.

Partivamo dai Struz, l’Oreste ed io, verso le cinque, all’alba, per arrivare a Grel in 10 – 15 minuti.
E ci mettevamo subito all’opera, l’Oreste con la falce ed io dietro a spande. Lavoravamo in silenzio, l’unico rumore quello del taglio dell’erba o il verso di qualche uccello di passaggio. Trascorreva così l’intera mattinata, interrotta solo dalle soste necessarie per guà la falce, e verso le 11 avevamo già fatto la maggior parte del lavoro.
A quell’ora arrivava mia zia accompagnata da mia cugina. Portavano, oltre ai rastrelli con cui ci avrebbero aiutato dopo pranzo per le successive operazioni di fienagione, un darlin con il pranzo. A questo punto interrompevamo il lavoro e ci radunavamo tutti sotto un isolato e maestoso pez, dove l’Oreste aveva rasato l’erba con la falce, e mia zia stendeva una tovaglia bianca candida disponendovi sopra le pietanze, l’immancabile polenta. ancora calda, con uno spezzatino di pollo o coniglio, pomodori di contorno, pratici da trasportare, salame e formaggio di riserva, non si sa mai, acqua e un fiasco di vino.
L’Oreste si sedeva allora sull’erba “a capotavola” e noi tutti intorno alla tovaglia. A busto eretto, mangiava lentamente e con grande dignità. Il lavoro da completare era “fuori dalla tavola”. Sembrava celebrare un antico rito, la pausa del lavoro quotidiano, il ritrovo della famiglia, il consumare il pasto tutti assieme, come un re contadino. Avendo cominciato la mattina molto presto io mangiavo come un ragazzo affamato, lui metodicamente ma senza fretta. Il pasto così durava a lungo, c’era lo spazio per le chiacchiere e, ogni tanto, per un’occhiata all’andamento del tempo meteorologico.
Finito il pranzo, mentre io, la zia e la cugina ci mettevamo a oltà il fieno, l’Oreste si concedeva una pennichella al fresco sotto l’abete. Infine, sveglio, ci aiutava a completare le operazioni della giornata. Nel tardo pomeriggio rientro a casa e poi l’indomani saremo ritornati a completare il lavoro con la raccolta ed il trasporto del fieno. Una vita regolata dalla natura.
Pensavo ogni tanto al barba Oreste quando, molti anni dopo, in qualche bar nei pressi del cosiddetto “Centro Direzionale” di Milano (presso la Stazione Centrale e il grattacielo Pirelli) consumavo un panino, farcito di qualche gustoso ma strano ingrediente e preparato da un simpatico barista napoletano, sorseggiando un calice di bianco gradevole ma di provenienza incerta. Un pasto veloce, con in testa i problemi sorti nella mattinata e le ipotesi di soluzione da applicare nel pomeriggio. Pensavo: “E’ stato vero progresso? Si, certo. Obiettivamente… mah…”